Riflettere su quale sia la nostra idea di bambino e di bambina e, per estensione, della categoria sociale alla quale appartengono, è oggi più che mai importante.
Questi strani personaggi che non cercano né storie né autori di pirandelliana memoria, ma sono essi stessi la storia; abitanti delle nostre case, scuole e piazze, delle strade reali e virtuali, questi sono i protagonisti di una generazione che oggi è comunemente definita dei nativi digitali[1]. Sono i bambini e le bambine del nostro mondo.
Un mondo in cui gli effetti combinati della rivoluzione digitale e del web 2.0, ossia dello stato di evoluzione del World Wide Web sui sistemi educativi, evidenziano una trasformazione radicale in una molteplicità di campi. Nei sistemi di relazione tra figli e genitori, tra alunni e insegnanti, tra amici e compagni; nei processi di apprendimento-insegnamento; nei percorsi di accoglienza e di inclusione delle diverse abilità e delle differenti provenienze sociali e culturali.
Una generazione di bambini che, in relazione alle fasi dello sviluppo evolutivo, orienta gli stili e i comportamenti di apprendimento in base ai seguenti valori[2]:
- Espressione del sé.
- La personalizzazione.
- La condivisione costante di informazione (sharing).
- Il riferimento costante ai coetanei.
Sono quattro le grandi aree di impatto della transizione prodotta dal digitale e dal web sugli stili di apprendimento:
- Forte crescita di ricerca/esplorazione nell’apprendimento, rispetto ai comportamenti acquisitivi e passivi di ricezione dei contenuti.
- Una naturale fluency tecnologica che li porta a considerare il web come il media primario di ricerca, acquisizione e condivisione dei contenuti del sapere.
- Una forte crescita di comportamenti di collaborazione/cooperazione tra pari, attuati soprattutto attraverso strumenti quali: Messenger, Youtube o i più diffusi social network.
- Una forte tendenza a privilegiare l’espressione della propria identità e delle proprie idee attraverso strumenti quali i blog o il microblogging (Messenger,Twitter).
Per questo è necessario focalizzare l’attenzione sui tempi e sugli spazi dedicati alle Persone in divenire che costituiscono la categoria ampia dell’infanzia moderna, nella consapevolezza di un cambiamento significativo e che ci impone attente e puntuali riflessioni in qualità di adulti dallo sguardo pedagogico.
Con l’avanzata della società moderna liquida, così come delineata dal sociologo e filosofo polacco Z. Baumann[3], caratterizzata da un endemico consumismo, da lui definita come una società moderna e liquida del consumo che promette una facile felicità, raggiungibile attraverso mezzi del tutto non eroici e quindi fatta di tentazioni e gratificazioni alla portata di tutti (cioè di ogni consumatore). A tutto ciò si aggiunga la paura vissuta e talvolta ansiogena, di molte famiglie e genitori in particolare, per un passato pieno di orrori ancora troppo vicino e un futuro distante pieno di rischi, incertezze e paure di ogni genere. Appare necessario interrogarci sul ruolo che può concretamente occupare la Persona Bambino come cittadino in e di questo mondo.
Allora viene da domandarsi, in che modo, oggi, si può ancora parlare di spazio e di tempo per l’infanzia? Quali tempi di incontro e di dialogo tra persone e quali strumenti?
Un modo sicuro per incominciare potrebbe essere quello di evitare il “pensiero unico”, ossia evitare l’appiattimento della singolarità che oggi sembra sempre più
Costretta a deporre le armi culturali del pluralismo e della diversità. E a omologarsi dentro agli stretti sentieri di un unico modello di vita: il corpo unico (imposto dalle silhouttes televisive), il piatto unico (imposto dall’hamburger dei McDonald’s), l’abito unico (imposto dal casual della Benetton), il sentimento unico (imposto dagli alfabeti amorosi delle Telenovelas), il week-end unico (imposto dagli intrattenimenti salottieri e sportivi delle Domeniche-in). L’insieme delle citate mono/identità porta alla palude dell’infelicità[4].
Considerazioni forti e interroganti. Che possono non essere condivise appieno, ma che certamente evidenziano le possibili situazioni di rischio a cui è esposto il mondo dell’infanzia (e non solo).
Allo stesso modo, lo sguardo pedagogico, impone una valorizzazione dell’infanzia come generatrice per sua stessa natura, di tempi e spazi carichi di originalità, spontaneità e attivismo.
I valori della espressione del sé sono ancora un riferimento importante nella vita dei nostri bambini, così come la condivisione di informazioni ed il riferimento ai coetanei. Sono cambiate le modalità ma non i bisogni, la frase montessoriana Aiutami a fare da solo, è oggi più che mai, carica di significato. Ci ricorda che la strategia educativa è quella di partire dal “bagaglio” cognitivo, emotivo, relazionale di ogni bambino. Qualunque sia il suo livello d’istruzione e di adeguatezza alle convenzioni sociali.
Usare la strategia del gioco, o meglio la metodologia del gioco è fondamentale sia che lo si faccia in gruppo o individualmente esso è sempre articolato e regolato, esso è esperienza. Giochiamo con i loro giochi, anche se questi sono mediati da un PC, e poi rendiamoli vivi, caldi, freddi nella costruzione di relazioni. Argomentiamo, dialoghiamo, prendiamoci tempo con i bambini. Lo spazio è il luogo in cui il tempo diventa vissuto in modo autentico, tutto ciò significa: fare una gita in bicicletta, passeggiare (non solo al supermercato), usare le mani per creare, per costruire, per accarezzare. Fare la lotta per poi fare la pace, perdere tempo per guadagnare tempo. Concludendo con le parole di un grande appassionato di bambini e bambine, Gianfranco Zavalloni[5], bisogna:
- Perdere tempo a parlare
- Passeggiare, camminare, muoversi a piedi
- Disegnare anziché fotocopiare
- Guardare le nuvole nel cielo e guardare fuori dalla finestra
Tutto questo rappresenta lo spazio e il tempo di un infanzia troppo spesso negata e non riconosciuta, a vantaggio di un’adultità sempre più piccola e impreparata. Bisogna imparare a fare le cose difficili con i bambini
E’ difficile fare le cose difficili:
parlare al sordo, mostrare la rosa al cieco.
Bambini, imparate a fare le cose difficili:
regalare una rosa al cieco,
cantare per il sordo,
liberare gli schiavi che si credono liberi.
Gianni Rodari
Laura Pinna (Pedagogista Anpe)
[1]L’espressione è stata coniata da Marc Prensky nel suo Digital Natives, Digital Immigrants pubblicato nel 2001.
[2]Da uno studio di Paolo Ferri, Università di Milano Bicocca, 2010 e dell’Agenzia inglese per l’innovazione dei sistemi scolastici, “Becta” del 2008 dell’Agenzia inglese per l’innovazione dei sistemi scolastici.
[3]Baumann Z. La vita liquida. Editori Laterza, 2008
[4]Franco Frabboni, Se infelici, l’infanzia e l’adolescenza escono di scena, in PedagogiaPiùDidattica. Teorie e pratiche educative. Aprile 2014, nr. 1, pag 9
[5]Gianfranco Zavalloni, La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e non violenta, Emi 2012, Bologna
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